lunedì 11 marzo 2019

Camminando sull'acqua una mattina di Marzo


Non c’è pericolo che l’emozione, il ricordo, di quelle ore scompaia dalla mia mente. Ma, mi son detto, se metto tutto nero su bianco, lo consegno ad internet sperando nell’eternità dei server in Svezia, solo così i dettagli di quei giorni rimarrano al sicuro dalla labilità della mia memoria.
Perchè quell’11 Marzo del 2011 io ero la, su quell’incredibile isola nell’estremo oriente ricca di storia, di ninja e templi, di sashimi e manga, di tecnologia e karaoke, di insegne luminose e monti nebbiosi.

Ivan, Andrea, Marco, queste righe sono anche per voi, perchè, nonostante ne parliamo raramente, e quando lo facciamo ricordiamo con il sorriso solo gli episodi più folcloristici, quell’unica esperienza è un filo rosso sottile legato ai nostri polsi.

Manabu, with this short story I (we) would like to thank you one more time: we’ll never forget what you did for us during those tremendous hours. Unfortunately for you, it is in Italian, but perhaps, if you would like to read it, online translation could help.
... 

Non lo nego, anche se si trattava di lavoro, l’idea di quella veloce missione a Tokio mi affascinava; l’Oriente mi ha sempre attirato; inoltre adoro volare, e l’emozione di salire sull’A380 valeva già da sola la fatica del lungo volo. Con due colleghi, Marco e Ivan, atterriamo a Narita la mattina presto del 9 Marzo; ricordo il freddo pungente e il sonno, mentre aspettiamo il bus che ci porta a Chiba, una prefettura a una trentina di chilometri da Tokio. Sul bus, dopo aver ricevuto il buongiorno e l’inchino dell’autista, insieme all’invito ad allacciarsi le cinture (primo assaggio del senso civico giapponese), ricordo il sollievo nel verificare che il mio Blackberry funziona: lo avevo ritirato solo pochi giorni prima, ed ero stato allertato da molti colleghi che erano rimasti delusi nel verificare che i loro telefoni non riuscivano a prendere la linea in Giappone. In effetti, Marco e Ivan, smanettano furiosamente, alle prese con problemi di rete.

Arrivati al nostro Hotel (dal nome che ha ben poco di orientale, “The Manhattan”), ci fiondiamo in camera. Il primo incontro con il cliente è già nel primo pomeriggio, ma abbiamo un paio d’ore per una doccia e un veloce sonnellino anti-jetlag, nelle nostre camere al quattordicesimo piano. Ricordo di aver puntato la sveglia del cellulare e di essermi buttato sul letto pensando: “figuriamoci se dormo a mezzogiorno!”... poi niente fino allo strano risveglio: sento un leggero ondeggiare, un tintinnio; apro gli occhi, vedo la lampada a stelo vicino al letto che dondola, sento ancora il letto che scricchiola; ancora nel torpore del sonno, mi rendo conto che sto vivendo la mia prima vera esperienza di terremoto, già finita, ma con un’intensità che in Italia avrebbe fatto scattare tutti i piani di emergenza, e probabilmente crollare diverse costruzioni.

Scendo nella hall pronto per il meeting, incontro i colleghi, e ci scambiamo le reciproche esperienze, fra risatine e commenti sulla tranquillità degli orientali intorno a noi. Evidentemente, per loro è ordinaria amministrazione, pensiamo.

Negli uffici, le chiacchere extra-lavoro con le nostre controparti, ci confermano quest’impressione; ci fanno sapere che, si, la scossa c’è stata, ma che rientra nella norma di un paese che convive da sempre con questo rischio. Tranquillizzati a sufficienza, possiamo concludere il primo incontro, tornare in Hotel, aspettare Andrea, l’ultimo collega che arriva direttamente da Parigi, e accomodarci in un ristorantino, dove entri e, come consuetudine, le cameriere ti accolgono inchinandosi, sorridendo e esclamando  Kangei”, per gustare qualche esotica prelibatezza.

Il secondo giorno è di ordinaria amministrazione; passiamo la giornata in ufficio, arriviamo a sera cotti, ma dobbiamo accettare l’invito a cena del cliente. Quando ripenso a quella sera, penso alla quiete prima della tempesta: veniamo totalmente avvolti dall’accoglienza giapponese; il ristorante si trova all’ultimo piano di un alto edificio (in Giappone negozi e ristoranti si trovano usualmente all’interno di palazzi, non a piano terra, e sono indicati dalle famose insegne luminose che si arrampicano fino in vetta); in seguito, abbiamo ringraziato la sorte che l’evento del giorno dopo abbia ritardato di molte ore, perchè subire la scossa a quell’altezza non sarebbe stato affatto divertente.

Ricordo che prima di entrare nel ristorante Andrea mi sussurra “sarà un’esperienza devastante...”; aveva ragione: la cena è sublime, ma interminabile, e il sakè e il soju scorrono a fiumi (ma l’acqua non esiste?). Uno degli orientali, addetto a preparare la minuta durante il meeting, si trasforma nel coppiere di corte, e si premura di non tenere un bicchiere vuoto per neppure dieci secondi. Ricordo le risate, Marco che addenta, sotto gli occhi dei giapponesi ansiosi di un giudizio estasiato, un mollusco descritto come raro e costosissimo, fa una faccia schifata ed esclama, per fortuna in italiano “sa d’orecchio!”, poi corregge il tiro in inglese in un più diplomatico “it’s strange...”. Ricordo la radice di wasabi fresco che, come un rito, viene grattugiato a turno, con forza, da tutti i commensali. Ricordo sempre il solito “coppiere” di cui sopra che tira fuori un gagliardetto della Fiorentina (?!), un pennarello, e chiede il nostro autografo... carichi di stupore e di liquore di riso, Andrea firma Gila11, io Montolivo10.

A fine cena, tutti ci avviamo verso il nostro Hotel, ma la serata non è finita: è tradizione il bicchiere della staffa, quindi ci stipiamo tutti in ascensore, ancora verso un ultimo piano, dove il Bar ci accoglie con comode poltrone di cuoio, bicchieri di whisky (con nonchalance, sporgo il braccio oltre il bracciolo, e il mio finisce tutto nella pianta accanto), e conversazioni tecnico-commerciali che la mia mente fatica a seguire.
Non contenti, abbiamo anche dell’home work da sbrigare, schede costi da revisionare, call con Firenze da fare, la stanza di Ivan si trasforma in un ufficio notturno improvvisato... morale, il letto mi accoglie solo dopo le 2 di notte.

La sveglia suona presto la mattina di Venerdì 11 Marzo. Ci avviamo verso gli uffici del cliente per l’ultimo, e decisivo, giorno di meeting. Qui l’atmosfera è un po’ cambiata, c’è un po’ di orientale strategia commerciale. In pratica, facciamo anticamera per tutta la mattina (ci viene detto che i loro partecipanti non sono pronti, che devono rivedere i numeri, etc etc); ho ancora l'immagine vagamente zen di Ivan che cammina sull'acqua di un laghetto decorativo, saltellando sulle mattonelle che lo attraversano, mentre aspettiamo davanti all’ingresso.

Alla fine, dopo un pranzo veloce (ma con un sashimi incomparabile, servito come se niente fosse in un ristorantino da pausa pranzo impiegatizia), il meeting può iniziare.

Ricordo le solite schermaglie su sconti e combinazioni. Il silenzio mentre la controparte guarda la lavagna su cui sono elencati items e prezzi, lo sguardo pensieroso, e Ivan che mi traduce quello che pronunciano sussurrando: “...troppo caro...”.

Poi tutto ha inizio

Parte con un leggero dondolio orizzontale, dapprima appena percettibile, ma ininterrotto e in crescendo. Uno di noi esclama “earthquake?”; dall’altra parte del tavolo i giapponesi appaiono calmi, e ci chiedono di stare tranquilli; “Be quite, it’s normal”, dicono. Ma non è normale, anzi. Non è più un leggero dondolio, ora è evidente, tanto che cominciano a sentirsi dei poco rassicuranti scricchiolii nelle pareti; poi una chiara percezione: al movimento orizzontale (ondulatorio), si aggiunge un movimento dal basso verso l’alto (sussultorio), e la combinazione fa paura.

Ora tutti siamo in piedi, uno dei giapponesi corre verso la porta, la apre e li si ferma (sta sotto l’architrave perchè è un posto sicuro, penso io; si era invece assunto il compito di tenere la porta aperta nel caso la struttura fosse andata fuori squadra, ci spiegheranno dopo).

Passano ancora pochi secondi (dall’inizio ne saranno passati una trentina), ma la scossa non si placa, anzi sembra ancora aumentare; guardo la parete dietro di me: è rivestita da pannelli verticali di circa un metro e mezzo di larghezza, e li vedo ondeggiare chiaramente, da destra a sinistra. Solo ora realizzo che anche i giapponesi sono realmente impauriti, e uno di loro grida “under the tables!”. Mi ritrovo sotto il tavolo, quasi fronte contro fronte con Andrea, che ha gli occhi sgranati e mi pare sussurri “qui si more tutti!”, ma forse me lo sono solo immaginato, o forse l’ho detto io.

Rimaniamo pochissimo in quella posizione: è probabilmente passato quasi un minuto dall’inizio, e sentiamo finalmente il grido liberatorio “go out, go out!!!”. Ci alziamo di scatto, e voliamo nel corridoio, qui vediamo la gente che esce dagli uffici, più o meno ordinatamente. Imbocchiamo le scale, per fortuna siamo solo al secondo piano (l’edificio non è altissimo, forse una decina di piani, ma sicuramente la scossa ai piani superiori fa ancora più paura). Le scale sono affollate, le sento ondeggiare sotto i piedi, ma ho il tempo di stupirmi: tutti sono diligentemente in fila sulla destra, scendono a passo svelto e si tengono al passamano. Noi siamo italiani, dire che siamo terrorizzati è un eufemismo, quindi superiamo tutti sulla sinistra, e facciamo i gradini almeno a quattro per volta. Arriviamo al piano terra in quello che mi è sembrato un lampo, nel ricordo un salto unico, e corriamo veloci lungo un corridoio di servizio, per sbucare finalmente all’esterno, sul retro dell’edificio, su una piattaforma di carico a un metro da terra; la uso come un trampolino per tuffarmi verso la sicurezza del parcheggio e del grande parco retrostante.

Mani sulle ginocchia, il fiato corto e l’adrenalina che pompa nelle vene, mi guardo intorno; vicino a me i tre colleghi, nelle mie stesse condizioni, con la paura negli occhi che probabilmente è la stessa che leggono nei miei. Diverse decine di dipendenti giapponesi sono intorno a noi, presto diventano centinaia; non ci sono scene di panico, ma non sono certo tranquilli, lo schock è sui volti di tutti. Una ragazza che era con noi al meeting, arriva subito dopo di noi; le lacrime le rigano il volto, la giapponese compostezza e il sorriso che ci avevano accolti nei giorni precedenti sono un ricordo; abbraccia un collega, che cerca di rassicurarla.
Quanto tempo è passato? Un minuto e mezzo, forse due, almeno... Ma la scossa non è per niente finita.

Siamo nel parcheggio, e vediamo le macchine ondeggiare sugli pneumatici; gli alberi che circondano il parco, sono scossi come da un vento che li investe in una direzione poi subito nell’altra. L’edificio sembra solo vibrare, ma sentiamo chiari i gemiti della struttura, e vediamo ondeggiare paurosamente l’alta antenna che si trova sulla sommità. Ora ho il tempo di chiedermi “ma come fa a non crollare tutto?!”.

Poi, lentamente, finalmente, il movimento si placa. Quando in seguito racconterò che la scossa è durata come minimo tre minuti, tre minuti e mezzo, anch’io stenterò a crederci, ma la lunga successione degli eventi appena descritti, me lo conferma.

L’efficiente macchina organizzativa giapponese fa scattare la procedura di emergenza della ditta: in pochi secondi tutti i dipendenti si distribuiscono su più file, ciascuna capeggiata da un addetto, che già indossa un gilet catarifrangente, e sembra spuntare i nomi da un blocco; senza particolari intoppi, l'ingranaggio ben oliato funziona. 

Noi siamo delle evidenti mosche bianche, ma ci viene subito assegnato un accompagnatore: si tratta di Manabu Takada, una delle nostre controparti durante il meeting, che si rivelerà un prezioso compagno nelle ore successive. Ci raccomanda di rimanere in gruppo, e che presto ci farà sapere come poterci organizzare. Infatti, ora che il pericolo sembra scampato, ci rendiamo conto di aver lasciato tutti i nostri beni, laptop, documenti e soprattutto cellulari, nell’ufficio, ma ovviamente non ci consentono di tornare al piano per recuperarli. Mentre quasi tutti i giapponesi hanno il cellulare in mano e riescono ad avere le prime informazioni dai notiziari on line (ma non a fare o ricevere chiamate, cosa che si rivelerà impossibile per ore), noi rimaniamo quasi all’oscuro di tutto, ma realiziamo che la notizia di un evento del genere giungerà presto anche in Italia. Spesso ho fatto l’esercizio mentale di figurarmi nel mezzo di una situazione di emergenza, e sempre ho pensato che in quell’eventualità niente mi avrebbe separato dal cellulare. Detto fatto. Senza il Blackberry mi sento perso, e ho il solo pensiero di tranquillizzare mia moglie, che immagino angosciata davanti al TG5 delle 7 di mattina.

Intanto cerchiamo di capire qualcosa in più; ci guardiamo intorno, ma non vediamo danni evidenti agli edifici che ci circondano, e ci sembra alquanto strano. Sentiamo però gli elicotteri in volo, vediamo anche un paio di colonne di fumo; e il segno evidente di qualcosa di sbagliato sono le crepe nel terreno, dalle quali salgono come sorgenti delle fontanelle di acqua scura fangosa, che presto formano una sorta di lago nel parco attiguo. Ci spiegheranno in seguito che la zona in cui ci troviamo è una sorta di piattaforma artificiale strappata al mare, che dista meno di un chilometro in linea d’aria, e quegli zampilli sono formati dall’acqua presente negli strati di terreno sottostante, strizzati come una spugna dal movimento tellurico.

Finalmente, la situazione appare stabilizzata, e ci consentono, accompagnati, di tornare al secondo piano per recuperare tutte le nostre cose. Saliamo quindi in fretta, gettiamo tutto nelle borse, abbiamo appena il tempo di uscire dalla stanza, che una seconda, violenta, scossa, ci sorprende; l’intensità è inferiore alla prima, ma un armadio tecnico in alluminio davanti all’ufficio vibra e risuona come fosse percosso da un martello! Questa volta senza aspettare alcun segnale, voliamo giù per le scale, e in pochi secondi ci ritroviamo di nuovo fuori con il cuore in gola.

Ma ora abbiamo i nostri preziosi strumenti tecnologici; solo il mio da segni di vita, ma chiamare è impossibile. Per fortuna, attraverso il messenger Blackberry, riusciamo a contattare un collega a Firenze, e, tramite lui, a rassicurare i nostri familiari in Italia.

Ora possiamo respirare, pensare al dopo, a come raggiungere l’Hotel, all’aereo del ritorno del giorno dopo; ritorno che, vista la situazione, appare quanto mai incerto.

Poi improvvisamente percepiamo una grande agitazione intorno a noi; qualcuno piange, tutti sono attaccati ai cellulari che diffondono i notiziari. Una parola giapponese, che però capiamo molto bene, corre sulle labbra di tutti: “Tsunami!”. In quel frangente, e così vicini al mare, risuona lugubre, e anche noi ci agitiamo. Chiediamo chiarimenti, ma ci dicono che il pericolo non riguarda noi, che ci troviamo si sulla costa, ma in una baia chiusa. Sono però tutti molto preoccupati per la situazione poco più a nord: il tratto costiero che va da Iwaki a Sendai, che subirà la maggiore devastazione, dista “solo” 160 chilometri.

Il buon Manabu ci sta incollato; dopo una mezz’ora ci fa salire sulla sua macchina. Ricordo che mentre lo aspettiamo all’interno, il SUV dondola sotto l’effetto delle scosse di assestamento. Ci porta in Hotel, solo tre chilometri di strada, lungo la quale vediamo pochi danni evidenti: qualche crepa, molti allagamenti, nessun edificio crollato: benediciamo l’ingegneria antisismica giapponese.
Arriviamo in Hotel, troviamo la hall piena di gente: hanno piazzato un grande televisore vicino all’ingresso, e le immagini sono impressionanti; per la prima volta vediamo, praticamente in diretta, l’onda nera che sommerge tutto, trascina via navi, case e persone. I giapponesi sono impietriti, scuotono la testa increduli.

Il personale con gentilezza e fermezza, impedisce a tutti di salire ai piani. Quindi camminiamo nervosamente fra la hall e il parco di fronte; vediamo marciapiedi distrutti, un po’ ovunque profonde crepe dalle quali scaturiscono rigagnoli di acqua scura, un pesante Tōrō (la classica lanterna di pietra ornamentale dei giardini) completamente crollato, ma ancora ci stupisce che un altissimo grattacelo proprio di fronte a noi, rivestito in vetro, non abbia subito apparentemente nessun danno esterno. La piscina sottostante, però, è piena di fanghiglia nera, filtrata dalle spaccature sul fondo.


Finalmente, dopo decine di tentativi, e ormai tre ore dopo la scossa, riesco a prendere la linea e a parlare con Monia: sminuisco, scherzo e cerco di tranquillizzarla, ma mentre parlo percepisco il dondolio di una scossa, cammino saltellando sulle mattonelle divelte dalle profonde crepe e, a non più di un paio di chilometri davanti a me, si alza alto e nero il fumo di una raffineria in fiamme.
Alla fine il personale dell’albergo cede alle richieste, e ci fa salire al nostro piano: ovviamente gli ascensori sono inutilizzabili, e per le scale ci accompagna una cameriera; dopo sette o otto piani è stremata, noi pure, le raccomandiamo di fermarsi, che possiamo proseguire da soli, accoglie l’offerta con sollievo. Arriviamo nelle stanze; trovo la mia a soqquadro, mobili e suppellettili sono spostati o caduti. Faccio velocemente la valigia, ma, pensando “chissà quando mi ricapita l’occasione!”, mi concedo il lusso di una rapida doccia e un cambio di abiti comodi.

Poi un grido dal corridoio: Marco urla “una scossa, una scossa...”. Non ci penso su un attimo, afferro valigia e borsa computer, e mi fiondo dietro a lui, Ivan e Andrea, giù per le scale... Solo nella hall, io quasi in preda ad un infarto, Marco si volta, sorridendo, ed esclama “...ma non era mica vero, l’ho detto per farvi muovere, sennò eravamo sempre su”... Maledetto!

Affrontiamo la serata e la nottata accampati nella hall; come noi, gli altri clienti dell’Hotel, ma non solo: le porte sono aperte, e il personale accoglie chiunque abbia bisogno di un posto caldo dove dormire (fuori la temperatura è prossima allo zero). Vengono tirate fuori coperte, viene allestito un banchetto dove a tutti viene offerto, in guanti bianchi e con rispettoso inchino, pane, marmellata e the caldo. Addirittura, per noi clienti, viene preparata una veloce cena improvvisata, insieme alle incredibili scuse per non poter offrire un menù completo.

Ormai è notte, ma ancora nei dintorni si aggirano i pendolari (la zona è ricca di uffici, ma treni e mezzi pubblici sono ovviamente fermi, e in migliaia non riescono a fare ritorno a Tokio). Anche noi usciamo per sgranchirci le gambe, e ci aggiriamo in mezzo a questo popolo colpito quasi in punta di piedi, ci sentiamo un po’ intrusi in un dolore collettivo.

Passiamo accanto ad un enorme parcheggio multipiano, che appare come interamente sprofondato di mezzo metro. Camminiamo vicino ad uno strano manufatto in cemento armato, un cilindro di un metro di diametro che si erge per un metro e mezzo sopra l’asfalto, e ci mettiamo un po’ per capire che si tratta di un tombino, spremuto in alto dalla pressione della prima scossa.
Arriviamo davanti a quattro cabine telefoniche: di fronte a tre di esse, lunghe file di persone in attesa del proprio turno, nessuno di fronte alla quarta; penso sia danneggiata, mi avvicino, ed è normalmente funzionante... ma riservata ai disabili!

Rientriamo nella hall e affrontiamo la notte: fortunatamente troviamo la relativa comodità di un piccolo divanetto; cerchiamo informazioni sul volo di ritorno, scambiamo pochi messaggi con i familiari (non era ancora l’epoca di Whatsapp). Molti invece stanno semplicemente sdraiati a terra, cercando un po’ di riposo.

Ma non riusciamo a dormire; le scosse di assestamento sono continue, ne valutiamo l’intensità tenendo d’occhio l’oscillazione dei lampadari, ce le conferma il sinistro allarme sonoro di un anonimo cellulare, che evidentemente ha un’apposita app installata. Ricordo che passo il tempo a valutare la distanza che mi separa dalla porta d’ingresso, e quanto ci metterei a scappare fuori, se una di quelle scosse facesse un salto di qualità.

Manabu ci è sempre vicino. Si assenta solo un’oretta, per tornare verso le 3 di notte: ha scovato non so dove qualche confezione di noodles precotti, qualche barretta al cioccolato, e si è già adoperato per risolvere il nostro problema successivo, ovvero trovare un passaggio per l’aeroporto. Lo ringraziamo, lui sorride, ci appoggia in tutto, è una presenza rassicurante, l’unico contatto fra noi e il suo popolo colpito; pensando ai nostri due colleghi, agenti giapponesi, che sono riusciti a ripartire verso i familiari qualche ora prima, gli chiediamo dove abitino i suoi, immaginando che si trovino molto distanti; ci risponde, con semplicità, che non abitano lontano, e che, fra l’altro, ancora non è riuscito a contattarli... Cadiamo tutti dalle nuvole, lo invitiamo con forza a separarsi da noi, e cercare di tornare a casa, ma lui è irremovibile, risponde “siete stati affidati a me, e non ho intenzione di lasciarvi soli”!
Così sarà fino alla mattina. Dobbiamo a lui se siamo stati fra i primi fortunati a poter lasciare quella zona: all’alba Manabu ci trova un taxi (non ne vedevamo uno dal giorno prima); lo salutiamo calorosamente, lo abbracciamo, rimarrà sempre nei nostri cuori.

Ci infiliamo nel taxi e ci affidiamo al silenzioso autista, che percorre 40 chilometri di viuzze e stradine secondarie (l’arteria principale è impraticabile, almeno un ponte pare sia crollato). Il viaggio sembra interminabile, siamo tutti vinti dalla stanchezza e dal sonno, e accogliamo la visione delle bianche strutture dell’aeroporto e delle immancabili derive degli aerei in parcheggio, come un miraggio. 
Narita, che risultava ancora chiuso al traffico quando siamo partiti da Chiba, sta riaprendo i battenti proprio al nostro arrivo; i decolli cominciano a rilento e ci aspettano altre lunghe ore di attesa. I danni interni alla struttura, i controsoffitti crollati, i neon caduti, sono già stati rimossi, o diligentemente recintati. Ogni tanto i pannelli con le informazioni e le insegne dei gates tremano sotto le leggere scosse di assestamento. Gli schermi sono fissi sui canali di informazione, mostrano quelle scene di devastazione e morte che ormai conosciamo a memoria, ma anche nuove immagini fisse e tremolanti, riprese da grande distanza, di sinistre strutture cubiche bianche e celesti: ai nostri occhi tecnici sembra un impianto di produzione elettrica, forse nucleare, ma le didascalie in ideogrammi non ci aiutano a capire molto di più.

All’inizio al Gate siamo soli, e capiamo di essere stati fra i primi arrivati in aeroporto; alla spicciolata le poltroncine si riempiono; l’A380, con le sue linee tozze ma eleganti, è pronto, li fuori oltre la vetrata, lo posso quasi toccare. Ma manca ancora l’equipaggio, imbottigliato nel traffico proveniente da Tokio. I piloti, le hostess, gli steward, sono proprio gli ultimi ad arrivare, e scorrono fra due ali di passeggeri, che li accolgono con fischi di sollievo e applausi.

E’ l’ultimo atto di questi indelebili quattro giorni. Finalmente il ventre dell’aereo ci accoglie come un’oasi. Mentre i motori fischiano sommessi, ho sentimenti contrastanti: sento l’urgenza di decollare, di mettere più miglia possibili fra me e quel rischio di nuove scosse che mi fa formicolare la schiena, la voglia di sciogliermi nell’abbraccio di Monia e dei miei figli; ma sento forte anche il rispetto e la pena per quel popolo ferito che lascio dietro di me.

Prima del decollo, il comandante prende il microfono e interrompe i miei pensieri; con il classico inglese sicuro dall’accento tedesco targato Lufthansa, si scusa del ritardo, poi esclama “...sarete comunque felici per essere decollati adesso, quando vedrete le ultime notizie al nostro arrivo a Francoforte...”. Il rombo dei motori ci spingeva, infatti, velocemente lontani dall’ultimo pericolo, portato dal vento di Fukushima.