Non c’è pericolo che l’emozione, il ricordo, di quelle ore scompaia dalla mia mente. Ma, mi son detto, se metto tutto nero su bianco, lo consegno ad internet sperando nell’eternità dei server in Svezia, solo così i dettagli di quei giorni rimarrano al sicuro dalla labilità della mia memoria.
Perchè quell’11
Marzo del 2011 io ero la, su quell’incredibile isola nell’estremo oriente ricca
di storia, di ninja e templi, di sashimi e manga, di tecnologia e karaoke, di
insegne luminose e monti nebbiosi.
Ivan, Andrea, Marco,
queste righe sono anche per voi, perchè, nonostante ne parliamo raramente, e
quando lo facciamo ricordiamo con il sorriso solo gli episodi più folcloristici, quell’unica
esperienza è un filo rosso sottile legato ai nostri polsi.
Manabu, with this short story I (we) would like to thank you
one more time: we’ll never forget what you did for us during those tremendous
hours. Unfortunately for you, it is in Italian, but perhaps, if you would like to read
it, online translation could help.
...
Non lo nego,
anche se si trattava di lavoro, l’idea di quella veloce missione a Tokio mi
affascinava; l’Oriente mi ha sempre attirato; inoltre adoro volare, e
l’emozione di salire sull’A380 valeva già da sola la fatica del lungo volo. Con
due colleghi, Marco e Ivan, atterriamo a Narita la mattina presto del 9 Marzo;
ricordo il freddo pungente e il sonno, mentre aspettiamo il bus che ci porta a
Chiba, una prefettura a una trentina di chilometri da Tokio. Sul bus, dopo aver
ricevuto il buongiorno e l’inchino dell’autista, insieme all’invito ad
allacciarsi le cinture (primo assaggio del senso civico giapponese), ricordo il
sollievo nel verificare che il mio Blackberry funziona: lo avevo ritirato solo
pochi giorni prima, ed ero stato allertato da molti colleghi che erano rimasti
delusi nel verificare che i loro telefoni non riuscivano a prendere la linea in
Giappone. In effetti, Marco e Ivan, smanettano furiosamente, alle prese con
problemi di rete.
Arrivati al
nostro Hotel (dal nome che ha ben poco di orientale, “The Manhattan”), ci fiondiamo in camera. Il primo incontro con il
cliente è già nel primo pomeriggio, ma abbiamo un paio d’ore per una doccia e
un veloce sonnellino anti-jetlag, nelle nostre camere al quattordicesimo piano.
Ricordo di aver puntato la sveglia del cellulare e di essermi buttato sul letto
pensando: “figuriamoci se dormo a
mezzogiorno!”... poi niente fino allo strano risveglio: sento un leggero
ondeggiare, un tintinnio; apro gli occhi, vedo la lampada a stelo vicino al
letto che dondola, sento ancora il letto che scricchiola; ancora nel torpore
del sonno, mi rendo conto che sto vivendo la mia prima vera esperienza di
terremoto, già finita, ma con un’intensità che in Italia avrebbe fatto scattare
tutti i piani di emergenza, e probabilmente crollare diverse costruzioni.
Scendo nella hall
pronto per il meeting, incontro i colleghi, e ci scambiamo le reciproche
esperienze, fra risatine e commenti sulla tranquillità degli orientali intorno
a noi. Evidentemente, per loro è ordinaria amministrazione, pensiamo.
Negli uffici, le
chiacchere extra-lavoro con le nostre controparti, ci confermano quest’impressione;
ci fanno sapere che, si, la scossa c’è stata, ma che rientra nella norma di un
paese che convive da sempre con questo rischio. Tranquillizzati a sufficienza, possiamo
concludere il primo incontro, tornare in Hotel, aspettare Andrea, l’ultimo
collega che arriva direttamente da Parigi, e accomodarci in un ristorantino,
dove entri e, come consuetudine, le cameriere ti accolgono inchinandosi,
sorridendo e esclamando “Kangei”, per gustare qualche esotica
prelibatezza.
Il secondo giorno
è di ordinaria amministrazione; passiamo la giornata in ufficio, arriviamo a
sera cotti, ma dobbiamo accettare l’invito a cena del cliente. Quando ripenso a
quella sera, penso alla quiete prima della tempesta: veniamo totalmente avvolti
dall’accoglienza giapponese; il ristorante si trova all’ultimo piano di un alto
edificio (in Giappone negozi e ristoranti si trovano usualmente all’interno di
palazzi, non a piano terra, e sono indicati dalle famose insegne luminose che
si arrampicano fino in vetta); in seguito, abbiamo ringraziato la sorte che
l’evento del giorno dopo abbia ritardato di molte ore, perchè subire la scossa
a quell’altezza non sarebbe stato affatto divertente.
Ricordo che prima
di entrare nel ristorante Andrea mi sussurra “sarà un’esperienza devastante...”; aveva ragione: la cena è
sublime, ma interminabile, e il sakè
e il soju scorrono a fiumi (ma
l’acqua non esiste?). Uno degli orientali, addetto a preparare la minuta
durante il meeting, si trasforma nel coppiere di corte, e si premura di non
tenere un bicchiere vuoto per neppure dieci secondi. Ricordo le risate, Marco
che addenta, sotto gli occhi dei giapponesi ansiosi di un giudizio estasiato,
un mollusco descritto come raro e costosissimo, fa una faccia schifata ed
esclama, per fortuna in italiano “sa
d’orecchio!”, poi corregge il tiro in inglese in un più diplomatico “it’s strange...”. Ricordo la radice di
wasabi fresco che, come un rito, viene grattugiato a turno, con forza, da tutti
i commensali. Ricordo sempre il solito “coppiere” di cui sopra che tira fuori
un gagliardetto della Fiorentina (?!), un pennarello, e chiede il nostro
autografo... carichi di stupore e di liquore di riso, Andrea firma Gila11, io
Montolivo10.
A fine cena,
tutti ci avviamo verso il nostro Hotel, ma la serata non è finita: è tradizione
il bicchiere della staffa, quindi ci stipiamo tutti in ascensore, ancora verso
un ultimo piano, dove il Bar ci accoglie con comode poltrone di cuoio, bicchieri
di whisky (con nonchalance, sporgo il braccio oltre il bracciolo, e il mio
finisce tutto nella pianta accanto), e conversazioni tecnico-commerciali che la
mia mente fatica a seguire.
Non contenti,
abbiamo anche dell’home work da sbrigare, schede costi da revisionare, call con
Firenze da fare, la stanza di Ivan si trasforma in un ufficio notturno
improvvisato... morale, il letto mi accoglie solo dopo le 2 di notte.
La sveglia suona
presto la mattina di Venerdì 11 Marzo. Ci avviamo verso gli uffici del cliente
per l’ultimo, e decisivo, giorno di meeting. Qui l’atmosfera è un po’ cambiata,
c’è un po’ di orientale strategia commerciale. In pratica, facciamo anticamera per
tutta la mattina (ci viene detto che i loro partecipanti non sono pronti, che
devono rivedere i numeri, etc etc); ho ancora l'immagine vagamente zen di Ivan che cammina sull'acqua di un laghetto decorativo, saltellando sulle mattonelle che lo attraversano, mentre
aspettiamo davanti all’ingresso.
Alla fine, dopo
un pranzo veloce (ma con un sashimi incomparabile, servito come se niente fosse
in un ristorantino da pausa pranzo impiegatizia), il meeting può iniziare.
Ricordo le solite
schermaglie su sconti e combinazioni. Il silenzio mentre la controparte guarda
la lavagna su cui sono elencati items e prezzi, lo sguardo pensieroso, e Ivan
che mi traduce quello che pronunciano sussurrando: “...troppo caro...”.
Poi tutto ha
inizio
Parte con un
leggero dondolio orizzontale, dapprima appena percettibile, ma ininterrotto e
in crescendo. Uno di noi esclama “earthquake?”;
dall’altra parte del tavolo i giapponesi appaiono calmi, e ci chiedono di stare
tranquilli; “Be quite, it’s normal”, dicono. Ma non è normale,
anzi. Non è più un leggero dondolio, ora è evidente, tanto che cominciano a
sentirsi dei poco rassicuranti scricchiolii nelle pareti; poi una chiara
percezione: al movimento orizzontale (ondulatorio), si aggiunge un movimento dal
basso verso l’alto (sussultorio), e la combinazione fa paura.
Ora tutti siamo
in piedi, uno dei giapponesi corre verso la porta, la apre e li si ferma (sta
sotto l’architrave perchè è un posto sicuro, penso io; si era invece assunto il
compito di tenere la porta aperta nel caso la struttura fosse andata fuori
squadra, ci spiegheranno dopo).
Passano ancora
pochi secondi (dall’inizio ne saranno passati una trentina), ma la scossa non si
placa, anzi sembra ancora aumentare; guardo la parete dietro di me: è rivestita
da pannelli verticali di circa un metro e mezzo di larghezza, e li vedo
ondeggiare chiaramente, da destra a sinistra. Solo ora realizzo che anche i
giapponesi sono realmente impauriti, e uno di loro grida “under the tables!”. Mi ritrovo sotto il
tavolo, quasi fronte contro fronte con Andrea, che ha gli occhi sgranati e mi
pare sussurri “qui si more tutti!”,
ma forse me lo sono solo immaginato, o forse l’ho detto io.
Rimaniamo
pochissimo in quella posizione: è probabilmente passato quasi un minuto
dall’inizio, e sentiamo finalmente il grido liberatorio “go out, go out!!!”. Ci alziamo di scatto, e voliamo nel corridoio,
qui vediamo la gente che esce dagli uffici, più o meno ordinatamente.
Imbocchiamo le scale, per fortuna siamo solo al secondo piano (l’edificio non è
altissimo, forse una decina di piani, ma sicuramente la scossa ai piani
superiori fa ancora più paura). Le scale sono affollate, le sento ondeggiare
sotto i piedi, ma ho il tempo di stupirmi: tutti sono diligentemente in fila
sulla destra, scendono a passo svelto e si tengono al passamano. Noi siamo
italiani, dire che siamo terrorizzati è un eufemismo, quindi superiamo tutti sulla
sinistra, e facciamo i gradini almeno a quattro per volta. Arriviamo al piano
terra in quello che mi è sembrato un lampo, nel ricordo un salto unico, e
corriamo veloci lungo un corridoio di servizio, per sbucare finalmente
all’esterno, sul retro dell’edificio, su una piattaforma di carico a un metro
da terra; la uso come un trampolino per tuffarmi verso la sicurezza del
parcheggio e del grande parco retrostante.
Mani sulle
ginocchia, il fiato corto e l’adrenalina che pompa nelle vene, mi guardo
intorno; vicino a me i tre colleghi, nelle mie stesse condizioni, con la paura
negli occhi che probabilmente è la stessa che leggono nei miei. Diverse decine
di dipendenti giapponesi sono intorno a noi, presto diventano centinaia; non ci sono scene di panico, ma non
sono certo tranquilli, lo schock è sui volti di tutti. Una ragazza che era con noi al
meeting, arriva subito dopo di noi; le lacrime le rigano il volto, la giapponese
compostezza e il sorriso che ci avevano accolti nei giorni precedenti sono un
ricordo; abbraccia un collega, che cerca di rassicurarla.
Quanto tempo è
passato? Un minuto e mezzo, forse due, almeno... Ma la scossa non è per niente
finita.
Siamo nel parcheggio,
e vediamo le macchine ondeggiare sugli pneumatici; gli alberi che circondano il
parco, sono scossi come da un vento che li investe in una direzione poi subito
nell’altra. L’edificio sembra solo vibrare, ma sentiamo chiari i gemiti della
struttura, e vediamo ondeggiare paurosamente l’alta antenna che si trova sulla
sommità. Ora ho il tempo di chiedermi “ma
come fa a non crollare tutto?!”.
Poi, lentamente,
finalmente, il movimento si placa. Quando in seguito racconterò che la scossa è
durata come minimo tre minuti, tre minuti e mezzo, anch’io stenterò a crederci,
ma la lunga successione degli eventi appena descritti, me lo conferma.
L’efficiente
macchina organizzativa giapponese fa scattare la procedura di emergenza della
ditta: in pochi secondi tutti i dipendenti si distribuiscono su più file, ciascuna
capeggiata da un addetto, che già indossa un gilet catarifrangente, e sembra spuntare i nomi da un blocco; senza particolari intoppi, l'ingranaggio ben oliato funziona.
Noi siamo delle
evidenti mosche bianche, ma ci viene subito assegnato un accompagnatore: si
tratta di Manabu Takada, una delle nostre controparti durante il meeting, che
si rivelerà un prezioso compagno nelle ore successive. Ci raccomanda di
rimanere in gruppo, e che presto ci farà sapere come poterci organizzare.
Infatti, ora che il pericolo sembra scampato, ci rendiamo conto di aver lasciato
tutti i nostri beni, laptop, documenti e soprattutto cellulari, nell’ufficio,
ma ovviamente non ci consentono di tornare al piano per recuperarli. Mentre
quasi tutti i giapponesi hanno il cellulare in mano e riescono ad avere le
prime informazioni dai notiziari on line (ma non a fare o ricevere chiamate,
cosa che si rivelerà impossibile per ore), noi rimaniamo quasi all’oscuro di
tutto, ma realiziamo che la notizia di un evento del genere giungerà presto
anche in Italia. Spesso ho fatto l’esercizio mentale di figurarmi nel mezzo di
una situazione di emergenza, e sempre ho pensato che in quell’eventualità
niente mi avrebbe separato dal cellulare. Detto fatto. Senza il Blackberry mi
sento perso, e ho il solo pensiero di tranquillizzare mia moglie, che immagino
angosciata davanti al TG5 delle 7 di mattina.
Intanto cerchiamo
di capire qualcosa in più; ci guardiamo intorno, ma non vediamo danni evidenti
agli edifici che ci circondano, e ci sembra alquanto strano. Sentiamo però gli
elicotteri in volo, vediamo anche un paio di colonne di fumo; e il segno
evidente di qualcosa di sbagliato sono le crepe nel terreno, dalle quali
salgono come sorgenti delle fontanelle di acqua scura fangosa, che presto
formano una sorta di lago nel parco attiguo. Ci spiegheranno in seguito che la
zona in cui ci troviamo è una sorta di piattaforma artificiale strappata al
mare, che dista meno di un chilometro in linea d’aria, e quegli zampilli sono
formati dall’acqua presente negli strati di terreno sottostante, strizzati come
una spugna dal movimento tellurico.
Finalmente, la
situazione appare stabilizzata, e ci consentono, accompagnati, di tornare al
secondo piano per recuperare tutte le nostre cose. Saliamo quindi in fretta,
gettiamo tutto nelle borse, abbiamo appena il tempo di uscire dalla stanza, che
una seconda, violenta, scossa, ci sorprende; l’intensità è inferiore alla prima,
ma un armadio tecnico in alluminio davanti all’ufficio vibra e risuona come
fosse percosso da un martello! Questa volta senza aspettare alcun segnale,
voliamo giù per le scale, e in pochi secondi ci ritroviamo di nuovo fuori con
il cuore in gola.
Ma ora abbiamo i
nostri preziosi strumenti tecnologici; solo il mio da segni di vita, ma
chiamare è impossibile. Per fortuna, attraverso il messenger Blackberry, riusciamo
a contattare un collega a Firenze, e, tramite lui, a rassicurare i nostri familiari
in Italia.
Ora possiamo
respirare, pensare al dopo, a come raggiungere l’Hotel, all’aereo del ritorno
del giorno dopo; ritorno che, vista la situazione, appare quanto mai incerto.
Poi
improvvisamente percepiamo una grande agitazione intorno a noi; qualcuno
piange, tutti sono attaccati ai cellulari che diffondono i notiziari. Una
parola giapponese, che però capiamo molto bene, corre sulle labbra di tutti: “Tsunami!”. In quel frangente, e così
vicini al mare, risuona lugubre, e anche noi ci agitiamo. Chiediamo chiarimenti,
ma ci dicono che il pericolo non riguarda noi, che ci troviamo si sulla costa,
ma in una baia chiusa. Sono però tutti molto preoccupati per la situazione poco
più a nord: il tratto costiero che va da Iwaki a Sendai, che subirà la maggiore
devastazione, dista “solo” 160 chilometri.
Il buon Manabu ci
sta incollato; dopo una mezz’ora ci fa salire sulla sua macchina. Ricordo che
mentre lo aspettiamo all’interno, il SUV dondola sotto l’effetto delle scosse
di assestamento. Ci porta in Hotel, solo tre chilometri di strada, lungo la
quale vediamo pochi danni evidenti: qualche crepa, molti allagamenti, nessun
edificio crollato: benediciamo l’ingegneria antisismica giapponese.
Arriviamo in
Hotel, troviamo la hall piena di gente: hanno piazzato un grande televisore
vicino all’ingresso, e le immagini sono impressionanti; per la prima volta
vediamo, praticamente in diretta, l’onda nera che sommerge tutto, trascina via
navi, case e persone. I giapponesi sono impietriti, scuotono la testa
increduli.
Il personale con
gentilezza e fermezza, impedisce a tutti di salire ai piani. Quindi camminiamo
nervosamente fra la hall e il parco di fronte; vediamo marciapiedi distrutti,
un po’ ovunque profonde crepe dalle quali scaturiscono rigagnoli di acqua
scura, un pesante Tōrō (la classica
lanterna di pietra ornamentale dei giardini) completamente crollato, ma ancora
ci stupisce che un altissimo grattacelo proprio di fronte a noi, rivestito in
vetro, non abbia subito apparentemente nessun danno esterno. La piscina
sottostante, però, è piena di fanghiglia nera, filtrata dalle spaccature sul
fondo.
Finalmente, dopo
decine di tentativi, e ormai tre ore dopo la scossa, riesco a prendere la linea
e a parlare con Monia: sminuisco, scherzo e cerco di tranquillizzarla, ma
mentre parlo percepisco il dondolio di una scossa, cammino saltellando sulle
mattonelle divelte dalle profonde crepe e, a non più di un paio di chilometri davanti
a me, si alza alto e nero il fumo di una raffineria in fiamme.
Alla fine il
personale dell’albergo cede alle richieste, e ci fa salire al nostro piano:
ovviamente gli ascensori sono inutilizzabili, e per le scale ci accompagna una
cameriera; dopo sette o otto piani è stremata, noi pure, le raccomandiamo di
fermarsi, che possiamo proseguire da soli, accoglie l’offerta con sollievo.
Arriviamo nelle stanze; trovo la mia a soqquadro, mobili e suppellettili sono
spostati o caduti. Faccio velocemente la valigia, ma, pensando “chissà quando mi ricapita l’occasione!”,
mi concedo il lusso di una rapida doccia e un cambio di abiti comodi.
Poi un grido dal
corridoio: Marco urla “una scossa, una
scossa...”. Non ci penso su un attimo, afferro valigia e borsa computer, e
mi fiondo dietro a lui, Ivan e Andrea, giù per le scale... Solo nella hall, io
quasi in preda ad un infarto, Marco si volta, sorridendo, ed esclama “...ma non era mica vero, l’ho detto per
farvi muovere, sennò eravamo sempre su”... Maledetto!
Affrontiamo la
serata e la nottata accampati nella hall; come noi, gli altri clienti
dell’Hotel, ma non solo: le porte sono aperte, e il personale accoglie chiunque
abbia bisogno di un posto caldo dove dormire (fuori la temperatura è prossima
allo zero). Vengono tirate fuori coperte, viene allestito un banchetto dove a
tutti viene offerto, in guanti bianchi e con rispettoso inchino, pane, marmellata
e the caldo. Addirittura, per noi clienti, viene preparata una veloce cena
improvvisata, insieme alle incredibili scuse per non poter offrire un menù
completo.
Ormai è notte, ma
ancora nei dintorni si aggirano i pendolari (la zona è ricca di uffici, ma
treni e mezzi pubblici sono ovviamente fermi, e in migliaia non riescono a fare
ritorno a Tokio). Anche noi usciamo per sgranchirci le gambe, e ci aggiriamo in
mezzo a questo popolo colpito quasi in punta di piedi, ci sentiamo un po’
intrusi in un dolore collettivo.
Passiamo accanto
ad un enorme parcheggio multipiano, che appare come interamente sprofondato di
mezzo metro. Camminiamo vicino ad uno strano manufatto in cemento armato, un
cilindro di un metro di diametro che si erge per un metro e mezzo sopra
l’asfalto, e ci mettiamo un po’ per capire che si tratta di un tombino, spremuto
in alto dalla pressione della prima scossa.
Arriviamo davanti
a quattro cabine telefoniche: di fronte a tre di esse, lunghe file di persone
in attesa del proprio turno, nessuno di fronte alla quarta; penso sia
danneggiata, mi avvicino, ed è normalmente funzionante... ma riservata ai
disabili!
Rientriamo nella
hall e affrontiamo la notte: fortunatamente troviamo la relativa comodità
di un piccolo divanetto; cerchiamo informazioni sul volo di ritorno, scambiamo
pochi messaggi con i familiari (non era ancora l’epoca di Whatsapp). Molti
invece stanno semplicemente sdraiati a terra, cercando un po’ di riposo.
Ma non riusciamo
a dormire; le scosse di assestamento sono continue, ne valutiamo l’intensità
tenendo d’occhio l’oscillazione dei lampadari, ce le conferma il sinistro allarme
sonoro di un anonimo cellulare, che evidentemente ha un’apposita app installata.
Ricordo che passo il tempo a valutare la distanza che mi separa dalla porta
d’ingresso, e quanto ci metterei a scappare fuori, se una di quelle scosse
facesse un salto di qualità.
Manabu ci è
sempre vicino. Si assenta solo un’oretta, per tornare verso le 3 di notte: ha
scovato non so dove qualche confezione di noodles precotti, qualche barretta al
cioccolato, e si è già adoperato per risolvere il nostro problema successivo,
ovvero trovare un passaggio per l’aeroporto. Lo ringraziamo, lui sorride, ci
appoggia in tutto, è una presenza rassicurante, l’unico contatto fra noi e il
suo popolo colpito; pensando ai nostri due colleghi, agenti giapponesi, che
sono riusciti a ripartire verso i familiari qualche ora prima, gli chiediamo
dove abitino i suoi, immaginando che si trovino molto distanti; ci risponde,
con semplicità, che non abitano lontano, e che, fra l’altro, ancora non è riuscito
a contattarli... Cadiamo tutti dalle nuvole, lo invitiamo con forza a separarsi
da noi, e cercare di tornare a casa, ma lui è irremovibile, risponde “siete stati affidati a me, e non ho
intenzione di lasciarvi soli”!
Così sarà fino
alla mattina. Dobbiamo a lui se siamo stati fra i primi fortunati a poter
lasciare quella zona: all’alba Manabu ci trova un taxi (non ne vedevamo uno dal
giorno prima); lo salutiamo calorosamente, lo abbracciamo, rimarrà sempre nei
nostri cuori.
Ci infiliamo nel
taxi e ci affidiamo al silenzioso autista, che percorre 40 chilometri di viuzze
e stradine secondarie (l’arteria principale è impraticabile, almeno un ponte
pare sia crollato). Il viaggio sembra interminabile, siamo tutti vinti dalla
stanchezza e dal sonno, e accogliamo la visione delle bianche strutture dell’aeroporto
e delle immancabili derive degli aerei in parcheggio, come un miraggio.
Narita, che
risultava ancora chiuso al traffico quando siamo partiti da Chiba, sta
riaprendo i battenti proprio al nostro arrivo; i decolli cominciano a rilento e
ci aspettano altre lunghe ore di attesa. I danni interni alla struttura, i
controsoffitti crollati, i neon caduti, sono già stati rimossi, o
diligentemente recintati. Ogni tanto i pannelli con le informazioni e le
insegne dei gates tremano sotto le leggere scosse di assestamento. Gli schermi
sono fissi sui canali di informazione, mostrano quelle scene di devastazione e
morte che ormai conosciamo a memoria, ma anche nuove immagini fisse e
tremolanti, riprese da grande distanza, di sinistre strutture cubiche bianche e
celesti: ai nostri occhi tecnici sembra un impianto di produzione elettrica,
forse nucleare, ma le didascalie in ideogrammi non ci aiutano a capire molto di
più.
All’inizio al
Gate siamo soli, e capiamo di essere stati fra i primi arrivati in aeroporto;
alla spicciolata le poltroncine si riempiono; l’A380, con le sue linee tozze ma
eleganti, è pronto, li fuori oltre la vetrata, lo posso quasi toccare. Ma manca
ancora l’equipaggio, imbottigliato nel traffico proveniente da Tokio. I piloti,
le hostess, gli steward, sono proprio gli ultimi ad arrivare, e scorrono fra
due ali di passeggeri, che li accolgono con fischi di sollievo e applausi.
E’ l’ultimo atto
di questi indelebili quattro giorni. Finalmente il ventre dell’aereo ci
accoglie come un’oasi. Mentre i motori fischiano sommessi, ho sentimenti
contrastanti: sento l’urgenza di decollare, di mettere più miglia possibili fra
me e quel rischio di nuove scosse che mi fa formicolare la schiena, la voglia
di sciogliermi nell’abbraccio di Monia e dei miei figli; ma sento forte anche
il rispetto e la pena per quel popolo ferito che lascio dietro di me.
Prima del
decollo, il comandante prende il microfono e interrompe i miei pensieri; con il
classico inglese sicuro dall’accento tedesco targato Lufthansa, si scusa del
ritardo, poi esclama “...sarete comunque
felici per essere decollati adesso,
quando vedrete le ultime notizie al nostro arrivo a Francoforte...”. Il
rombo dei motori ci spingeva, infatti, velocemente lontani dall’ultimo
pericolo, portato dal vento di Fukushima.
Nessun commento:
Posta un commento